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Il vino al tempo dei Romani


Il vino, nella tradizione romana contrariamente a quella greca, era di uso esclusivamente maschile, tanto che qualora il marito avesse sorpreso la moglie a berne sarebbe stato autorizzato ad ucciderla o divorziarne.

E’ importante riconoscere che i romani subirono un importante cambio di mentalità grazie all’ acquisizione delle culture che conquistavano e col tempo il loro rigoroso stile di vita si adattò anche ai lussi. Fu solo nel II sec. a.C. dunque che la viticoltura prese piede nell’ economia agricola romana conseguentemente alla necessità di vino per banchetti e feste. A questo periodo risale anche il trattato “De agri cultura” di Catone il Censore, il quale illustra gli strumenti, le lavorazioni e le caratteristiche (inclusa la redditività) della vite; Catone consigliava inoltre le tecniche di assaggio e pesatura del vino tra cui l’ usanza di conservare il vino nella cantina dell’ acquirente anziché del venditore.

In questo periodo di crescita nacque il primo vino prestigioso nell’ Agro Falerno, l’ Opimiano, 121 a.C. (dedicato al console Opimio). In quest’ anno il vino si distinse in tre tipologie: prodotti rari destinati all’ élite; prodotti di uso quotidiano; prodotti destinati al popolo (in grande quantità ma scadenti).


Nel III sec. d.C. durante il regno di Diocleziano, a causa di una grande inflazione il vino divenne impopolare (il suo prezzo era cento volte superiore rispetto al I secolo). Il prezzo di un sextarius di vino (54 cl) divenne pari a un sesto del salario medio e ciò portò, insieme al termine dell’ Impero Romano d’ Occidente e le invasioni barbariche, alla sostituzione del vino con la birra. Lo sviluppo della vite venne proseguito in Gallia (Francia), Spagna e Germania.


Si stima che a Pompei vi fossero circa duecento osterie dove il vino veniva servito in caraffe(vuotate in una sola volta) e prezzato dai 12 ai 54 sesterzi per anfora (sistema in asses per sextarius) ma quali vini avremmo potuto bere passeggiando per la città?

Vini dolci e pregiati come il “passum” appassito al sole sui graticci.

Vino cotto e concentrato fino a riduzione dei due terzi chiamato “defrutum” .

“Mulsum” , miscelato con miele fino a 250 g/L, servito con antipasti.

“Preliganeo” ottenuto da uve con maturazione precoce.

Vi erano anche vini destinati al popolo, “posca” o addirittura annacquati come la “lorca”.

L’ “Impeciato” adatto a lunghe conservazioni, realizzato con l’ aggiunta di resine.

Il “protropo”,vino debole e cotto, ricavato dallo schiacciamento delle uve per pressione spontanea.

“Tortivo”, il cui mosto derivava da spremiture di vinacce esauste.

“Prefamino”, il vino più pregiato ed offerto agli dei per una vendemmia rigogliosa.

Vini “salsi”, salati perché ottenuti dall’ aggiunta di acqua marina (aumenta la velocità di maturazione) a uve seccate al sole.

Il “semper mustum”, bloccato nella fermentazione per effetto dell’ acqua fredda nel quale le anfore venivano immerse tutto l’ inverno; utilizzato per dolcificare i vini troppo secchi.

Vi erano poi i “secondi” (di seconda spremitura) ottenuti dalla fermentazione delle vinacce con aggiunta di acqua: ottenuto in tre tipi, a seconda del tempo di fermentazione e quantità d’acqua; tra cui il “vin fecato” ottenuto dalle fecce.


Abbiamo dunque capito che il vino al tempo dei Romani era totalmente differente dal vino che conosciamo oggi e probabilmente anche pessimo, escluso rari casi, inoltre non adatto a maturazione (massimo un anno) ma fu in questi tempi, durante i suntuosi banchetti che si consolidò la figura del coppiere, specializzato nel servire vino.


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